Il resoconto militare di Sosia nell’Amphitruo (vv. 186-262) costituisce uno dei maggiori esempi dell’abilità parodica di Plauto. In questa cornice risalta il carattere parodico dell’uso del verbo obtruncare al v. 52 (ipsusque Amphitruo regem Pterelam sua optruncavit manu). Per quanto attiene all’ambito propriamente stilistico tale voce riveste spesso nell’usus plautino un valore marcatamente paratragico, come si evince dai loci paralleli di XCIII inc. inc. fab. R2 ed Aen. II, 557-8, a proposito del quale il commento serviano riconduce a Pacuvio l’immagine del truncus di Priamo abbandonato sulla spiaggia troiana. Sul piano tematico-ideologico il verso plautino in esame pare, in particolare alla luce di Val. Max. III, 2, 3-6, il riecheggiamento di un paradigma comportamentale eroico attribuito dalla tradizione romana solo a pochi eroi nazionali: quello della decapitazione del dux nemico o di un rappresentante eccellente dello schieramento avversario.
Il contributo analizza alcuni frammenti acciani per individuare in essi peculiari figure retoriche che giustifichino il tradizionale giudizio espresso dalla critica letteraria latina (Quintiliano, Cicerone, Orazio) sull’autore, qualificato come dotato di vis, asprezza espressiva, iracundia. Dopo un’analisi del lessico critico latino, nei frammenti di Accio l’autrice rileva la presenza insistita di coppie sinonimiche, della differentia verborum, di iperbato e synchisis, che trasmettono l’idea di una sublime passione, propria di chi sia preda di forti emozioni.
Le Tuscolane è opera innervata da frequenti citazioni di poeti greci e latini, in un non dissimulato dialogo fra tradizione filosofica e tradizione letteraria: nel presente contributo si prendono in esame alcune citazioni poetiche tragiche che hanno per tema gli Inferi e l’aldilà in connessione stretta con le tematiche consolatorie presenti nell’opera e con il sostrato platonico, che caratterizza l’approccio ciceroniano ai temi mitici. Fin dall’inizio delle Tusculanae il dibattito sulla poesia costituisce uno snodo fondamentale per Cicerone, che, ancor prima di iniziare la sua disputatio filosofica sulla morte, si premura di sgombrare il campo proprio da quelle finzioni poetiche, che poi saranno continuamente evocate nel corso dei 5 libri. In particolare si esamina poi l’emblematica funzione del mito di Tantalo in Tusc. IV 35 dove si cita inc. inc. fab. 110 R.2, del quale si documenta articolatamente la connessione con l’ideologia antitirannica congeniale probabilmente ad una tragedia dedicata alle vicende dei Pelopidi, la cui relazione genealogica con l’antenato Tantalo appare un costante Leitmotiv.
Dai giudizi sul teatro negli epistolari ciceroniani emergono i gusti raffinati di Cicerone, che disdegna generi popolari come i mimi, nonché l’importanza attribuita al comportamento del pubblico, ossia all’accoglienza riservata agli uomini politici al loro ingresso in teatro e alle reazioni a battute interpretate in riferimento all’attualità. Le citazioni teatrali presenti nelle epistole evidenziano la tendenza di Cicerone ad immedesimarsi con celebri personaggi della tradizione tragica e comica; esse non mirano tanto ad ‘ornare’ lo stile quanto a richiamare una cultura condivisa, rendendo la presa di contatto con il destinatario più efficace e coinvolgente.
Il duello finale fra Enea e Turno si articola in tre scene distinte. La prima (Aen. XII, 728-790) è dominata dal motivo dell’incidente: la spada di Turno si spezza, mentre la lancia scagliata da Enea contro questi rimane conficcata in un albero sacro. La seconda (791-842) è modulata sul tema dell’errore: sia Giunone sia Giuturna si piegano alla volontà dei fata rinunciando alla volontà di proteggere Turno, sentimento che le ha animate sino ad allora. La svolta drammatica della terza sequenza (843-952), in cui il protagonista uccide il proprio rivale, nasce dal riconoscimento di un atto ingiusto: Enea, che sta per risparmiare Turno, si accorge del balteo che questi aveva rubato dal cadavere di Pallante.
Le tre peripezie della chiusa dell’’Eneide’ paiono perciò riflettere la distinzione aristotelica fra atykhema, hamartema ed adikema trattata sia nell’’Etica Nicomachea’, sia nella ‘Retorica’.
Della descrizione di Verg. Aen. I, 159-169 sono state messe in luce da tempo le caratteristiche compositive ed i richiami intertestuali, ma restano discrepanze sui particolari e soprattutto sul significato profondo (‘armonia’ o ‘angoscia’?). L’analisi delle tipologie descrittive porta ad individuare un locus amoenus (vv. 163b-164; 166-169) incastonato in un paesaggio ‘dionisiaco’ (vv. 162-163°; 164b-166) e quindi due punti di vista distinti. Il termine scaena allude al teatro non sotto l’aspetto delle pitture parietali, ma della frons scaenae monumentale d’età augustea.
Una rilettura della pagina di Orazio, ars 86-118, condotta con l'ausilio di passi di Aristotele (rhet. 3, 7, 1408a, 10 ss.; poet. 1455a, 30 ss.) e di Cicerone (de orat. 2, 185 ss.), induce a ridimensionare l'esegesi proposta da Florence Dupont all'interno di una sua recente valutazione del ruolo dell'attore (in particolare tragico) nel teatro romano. L'attore 'oraziano' non è un "epiteto", una immagine fissa sprovvista di carattere, una maschera senza volto; al contrario è un vultus che ha sembianze e sensi umani, in virtù dei quali soltanto può scattare la sympatheia degli spettatori e l'autore, conseguentemente, può esercitare la sua azione psicagogica.
Anche per questi aspetti l’Ars non rispecchia una situazione di fatto del teatro romano, bensì propone un modello di teatro non ancora realizzato a Roma, portando avanti la battaglia che Orazio ha da sempre condotto contro la rozzezza e l’improvvisazione, contro la amoralità di una letteratura disancorata dall’impegno etico e civile come dalle norme del decorum e della coerenza artistica.
Attraverso una nuova analisi dei frammenti si propone l’ipotesi per cui la satura enniana sarebbe una raccolta di carmi conviviali ispirata agli skolia dei Kommersbücher e alla poesia parodico-culinaria greca. L’ipotesi corrobora ed è corroborata dalla ricostruzione delle origini della poesia e del teatro latino di Nevio Zorzetti, secondo cui in Roma antica sarebbe esistita una cultura del banchetto sul modello greco da cui sarebbe nata la satura drammatica.
Nel teatro la retorica trova un modello di riferimento per l’actio. A questa tocca infatti il compito di manifestarsi come una sorta di spettacolo che agisca sui sensi del pubblico e dei giudici, perché, come dice Quintiliano, attraverso gli occhi e le orecchie, il sentimento penetri nell’animo. Come dimostra l’appassionata e minuziosa analisi dedicata dall’autore dell’Institutio all’inizio della pro Milone, si richiede perciò all’oratore una voce educata e allenata, in grado di variare timbro e tonalità, sino a raggiungere il massimo dell’ampiezza, come un flauto ‘a fori tutti aperti’. L’espressività patemica del viso dell’oratore ha poi un riflesso nei mutamenti che intervengono nel volto dei destinatari, che testimoniano il raggiungimento, come nello spettacolo, di una sumpatheia collettiva.
L’immagine del flauto ricorre nei trattati di retorica a siglare l’equivalenza del forum… quasi theatrum, in cui si esplica un tipo di eloquenza destinato ad un uditorio il più vasto possibile.
Manifeste culturel, le théâtre de Sénèque est adossé à des modèles littéraires complexes qu’il revisite en profondeur. Au fondement d’une réflexion sur les autres et sur soi, il fonctionne en interface avec une épopée qui admet désormais l’interrogation critique, non sans rapport avec la politique julio-claudienne. Le mélange des niveaux épiques en est un principe d’écriture, (Iliade révisée, Thébaïde, épopée alexandrine d’Apollonios de Rhodes). S’y adjoint une transgénéricité savamment choisie et mise en œuvre : ainsi en va-t-il de l’élégie érotique augustéenne côtoyant le lyrisme saphique ou catullien. Une rhétorique des figures complexes sous-tend conjointement les déconstructions de ces âmes en fragments. Ainsi la pièce d’Œdipe est écrite sur le modèle de l’énigme de la Poétique d’Aristote, comme le montre une comparaison avec Sophocle. La philosophie stoïcienne, explication totale du monde et de l’homme, trouve aussi une place originale : elle est travaillée en enargeia dramatique des maladies de l’âme. Enfin la métrique est travaillée pour une véritable ‘mise en scène’ de la lyrique éolienne d’Horace et par la dérivation des mètres de Caesius Bassus, artigraphe contemporain du tragique. En donnant alors ainsi à entendre et à voir ces corps et âmes en tourments, Sénèque exploite d’une manière originale l’esthétique du Sublime de Ps-Longin. Tragédie, épopée, élégie, lyrisme et lyrique, philosophie, rhétorique et politique, en diachronie culturelle et en actualisation néronienne, se rejoignent désormais dans une même représentation des mystères de l’être et de la condition des hommes. Aussi le théâtre sénéquien est-il plus encore qu’un Manifeste culturel un véritable événement culturel.
Una coerente serie di indicatori strutturali mostra che l’Hercules furens, lungi dall’essere il prodotto d’un autore alle prime prove, va ascritto alla fase più matura dell’arte drammaturgica di Seneca. Sembra perciò legittimo verificarne il significato alla luce delle riflessioni sul teatro contenute nella più matura produzione del pensatore. E nulla par confortare l’ammissibilità d’un suo finale ottimistico. La superba icona del personaggio mitico, già degradata per saturam nell’Apocolocyntosis, viene qui spinta a toccare il grado zero del suo statuto tradizionale.
Osservando le funzioni che il concetto di ostensione ha nella terapia della passione in Seneca, si ricavano alcune indicazioni che sembrano poter rivestire un ruolo specifico anche della sua produzione tragica. Attraverso la costituzione di alcune particolari immagini-guida, Seneca punta alla teatralizzazione della passione, ma nel contempo, sfruttando tecniche letterarie già messe in atto dai poeti augustei, fornisce indizi che serviranno a indirizzare il suo lettore/spettatore all’interpretazione delle immagini stesse in chiave stoica.
Nonostante il declino della fortuna di Ennio drammaturgo nel I sec. d.C., in un carme di polemica letteraria Fedro sceglie come emblema della tragedia romana il prologo della Medea, che tuttavia sottopone ad un profondo processo di riscrittura finalizzato a correggere e adeguare il testo ai canoni del classicismo augusteo sotto il profilo contenutistico, stilistico e metrico; tale ‘revisione’ denota forse una puntuale reazione allo stimolo delle critiche oraziane al teatro di Ennio, nonché la ricezione di spunti desunti dalla perduta Medea ovidiana.
Es wird immer wieder behauptet, Petron beziehe sich mit der Troiae halosis in cap. 89 seines Werks Satyrica in kritischer Weise auf Senecas Tragödien. Es wird aber selten gesagt, worin diese Kritik bestehe. Der Aufsatz versucht, aus cap. 88 über den Verfall der Künste fünf Kriterien zu gewinnen, unter derem Blickwinkel Petron Seneca kritisiert. cap. 88 stellt die Theorie dar, cap. 89 die Praxis.
Il Dialogus tacitiano, ambientato dall’anno 75 e redatto post 102, dopo aver postao all’inizio il problema de causis corruptae eloquentiae, nel teso dibattito che tutto quanto lo attraversa, sembra spostare il discorso sul ‘contrasto’ fra due generi di comunicazione: l’oratoria forense, difesa con durezza da Marco Apro e la poesia tragica alla quale, dopo i successi riportati come oratore, si è rivolto Curiazio Materno che sceglie come protagonisti personaggi che abitano la tradizione del mito greco e la ‘grande storia’ romana di recentissima memoria: Catone Uticense, Domizio, portatori di un messaggio anticesariano ed antitirannico: il serrato dibattito non determina alcuna divagazione rispetto allo Hauptthema: Materno smaschera nell’acceso modernismo di Apro i segni più gravi e drammatici di un’eloquenza non tanto formalmente ‘decaduta’ quanto politicamente degenerata a strumento guidato dal potere, un tipo di eloquenza che nutre i delatores e li costituisce nella posizione non di uomini liberi e potenti, ma quasi di prepotenti liberti. Sdegnato di questa cinica modernità, Materno non può comunque idealizzare la grande eloquenza degli ultimi decenni della res publica, troppo spesso fautrice di sovversioni e discordie. A contrasto, Materno tesse quasi un elogio dell’attuale quiete di regime, con un tono, però, di ironia che, malgrado alcune superficiali coincidenze, lo mantiene lontanissimo dalle posizioni di Apro. Critico ammirato, ma severo, dell’eloquenza repubblicana, durissimo oppositore di quella ‘moderna’, Apro ha disertato quasi in toto dall’oratoria forense, ha scelto una forma più alta e severa di eloquentia, secondo il recente esempio di Seneca, e da esssa si attende una gloria futura, non di oratore, ma di poeta.
Nelle Satire di Giovenale numerosi sono i giudizi negativi sulle forme teatrali contemporanee all’autore, sia regolari sia paraletterarie, nel solco di una tradizione retorica e critica iniziata già dalla generazione augustea.
Un giudizio a parte spetta però all’atellana, rivalutata da Giovenale sia come rito teatrale e sociale che conserva caratteristiche di arcaica e provinciale austerità, sia come genere a cui è attribuito il ruolo di critica al potere e alla società, rilevato anche in alcuni passi di Svetonio.
Tale rivalutazione, palese in due passi in cui è esplicito il riferimento all’atellana (Sat. 3, 172-179 e 6, 71-72) offre una sfumatura critica e polemica anche ad un terzo passo (Sat. 7, 115-117), in cui il richiamo al teatro sembra sottinteso.
Nella dichiarata e programmatica asistematicità dei commentarii gelliani l’autrice individua alcune costanti relative al senso della citazione teatrale entro le Noctes Atticae. Esso è riconducibile allo scrupolo erudito-stilistico focalizzato su singoli elementi lessicali, al riconoscimento dell’eccellenza stilistica di determinati autori, Plauto, Virgilio e Cicerone in primis, alla valutazione sincretica di autori drammatici greci e latini, e che si sostanzia spesso nell’uso di aneddoti biografici che conferiscono enargheia al testo.
Giovenale, in alcuni luoghi delle Satire, riflette sulla degenerazione dell’evento teatrale a Roma: esso non è più momento di riconoscimento collettivo nei valori fondanti dello Stato, ma spettacolo con atti e movenze al limite della decenza che stimolano le pulsioni più ignobili del pubblico, in particolare delle spettatrici. Gli autori di teatro, non più sostenuti da generosi mecenati, sono costretti a comporre opere di basso livello e grande successo presso il pubblico più rozzo per sopravvivere alla fame. Il popolo vede andare sul palco anche i nobili, i quali perdono la propria dignità e diventano attori di deprimenti farse, portando a compimento una pessima tradizione inaugurata da Nerone in persona.
Nell’in Eutropium Claudiano concentra le sue risorse poetiche per materializzare l’assurda eccezionalità del consolato di un eunuco. Per opporsi alla ‘provvidenza crudele’ che, con incomprensibile sarcasmo, ha assegnato il consolato ad Eutropio, il poeta brandisce le armi della parodia, attraverso la contaminazione ed il rovesciamento dei generi letterari, primi fra tutti l’epica ed il teatro. In particolare, la sovrabbondanza del lessico teatrale, la smania per il teatro di Eutropio e della sua corte, la rappresentazione teatrale di certi personaggi si configurano come uno strumento poetico che, facendosi forte del giudizio corrente, anche e soprattutto negli ambienti cristiani, sull’opportunità degli spettacoli teatrali, raggiunge il fine politico di un declassamento mediatico di Eutropio e dell’intera corte costantinopolitana.
In diesem Beitrag geht es um die moralische, theologische, politische und wirtschaftliche Begründung der Polemik des Salvian von Massilia gegen Theater- und Circus-Spiele. Für die moralische Kritik am antiken Drama griffen die christlichen Autoren v.a. auf Cicero zurück, der die Gefährlichkeit von Aufführungen schon in Bezug zum römischen Staat und der römischen Moral gestellt hatte. Durch Seneca fand auch die Argumentation der stoischen Psychologie gegen die öffentliche Erregung von Leidenschaften Eingang in die christliche Polemik. Dagegen stammt die Kritik an der Darstellung von Göttern, obwohl bereits Hauptthema der Kritik Platons, bei den christlichen Autoren ganz überwiegend aus der christlichen Theologie, die die Darstellung Gottes überhaupt verbot.
Salvian ist der erste, der wirtschaftliche und soziale Gründe in die Polemik gegen Theater und Schauspiele einbrachte. Im 5. Buch seines Werkes De gubernatione Dei geht er auf die sündhafte Habgier der Reichen und die Methoden der Ausbeutung mittels Steuererhöhung ein. Deren Folge ist die Flucht der verarmten Bauern aus dem Imperium Romanum zu den Barbaren und die Entstehung von Räuberbanden und ganzen Bevölkerungsschichten, den gallischen Bagaudae, die sich dem römischen Staat widersetzten oder sich ihm entzogen. Unter diesen Aspekten sieht Salvian auch die verhängnisvolle Leidenschaft der Römer des ganzen Imperium Romanum und damit auch Galliens für Theater und Schauspiele. Im 6. Buch zählt er die Laster auf, für deren schlimmstes er neben dem Theater die Circus-Spiele hält, weil ihr Ziel der Tod von Menschen durch wilde Tiere ist. Er fügt diesem Thema aber sogleich das wirtschaftliche Argument an: es sei paradox, daß die dafür nötigen Tiere mit höchstem Aufwand aus der ganzen Welt herangeschafft werden. Er konstatiert zwar, daß in vielen Städten des Imperium Romanum die Veranstaltung von spectacula aus wirtschaftlichen Gründen bereits eingestellt worden ist, berichtet dann aber, daß die Honoratioren der Stadt Trier beim Kaiser einen Antrag auf Genehmigung und finanzielle Unterstützung von Spielen gestellt haben, um auf diese Weise die Wirtschaft der Stadt neu zu beleben. Für den christlichen Polemiker verbinden sich in einer solchen Begründung der Glaubensfrevel und die Unmoral mit dem wirtschaftlichen Wahnsinn.
Si usa attribuire a Sidonio scarso apprezzamento per il comico e per la palliata in particolare. Ma Sidonio conosce e cita spesso per nome i tipi da “commedia umana” che gli erano suggeriti da Plauto e Terenzio (adulatori, ambiziosi, avari, soldati millantatori). Vorrei dire che questi personaggi “cartacei” gli permettevano di orientarsi nella selva degli esseri umani del mondo reale, tra cui la sua cura di pastore d’anime lo obbligava ad aggirarrsi. Una certa ambiguità di giudizio (ora divertito, ora sprezzante) nei confronti del comico era dovuta, io credo, al contrapposto atteggiamento verso la palliata di autori classici che egli riteneva propri maestri, dei quali ora ggli accadeva di seguire l’uno ed ora l’altro: Cicerone, Orazio (e la sua critica contro gli anciens) nonché i maestri cristiani, da Tertulliano ad Agostino: particolare affinità Sidonio pare mostrare con San Gerolamo.
I poeti usarono i sogni erotici per illustrare le motivazioni segrete dei loro personaggi. I filosofi materialisti (Epicuro, Lucrezio) e i fisici (Ippocrate, Erofilo, Galeno) ne sottovalutarono l’importanza e Aristotele non attribuì ad essi nessun valore morale. Tuttavia, per gli autori pitagorici, i filosofi spiritualisti (Platone e i Neoplatonici) e per gli affiliati alla scuola stoica questi sogni erano un sintomo di squilibrio mentale. La loro assenza era considerata un segno di progresso nella virtù. Le emissioni notturne svilivano moralmente l’individuo, perché erano un segno che il corpo e l’anima erano confusi. Dati tali precedenti e considerate le proibizioni giudaiche in materia di purezza, i primi padri della Chiesa furono ossessionati dal problema dei sogni erotici che portavano all’eiaculazione. Il problema fu risolto da San Gregorio Magno che distinse tre tipi di 'pollutio': ex superfluitate, ex infirmitate, ex crapula, ex turpi cogitatione. Solo l’ultima tra queste era peccaminosa, ma la colpa era attribuita al peccatore con diversa gradazione, a seconda dei tre stadi del peccato: suggestione, delectatione e consensu.
L’articolo sintetizza un’indagine sul soggetto “leone” in Grecia dall’età micenea a quella arcaica. Mediante l’esame delle sue occorrenze letterarie e iconografiche, oltre che delle testimonianze zooarcheologiche e storiografiche, si sono chiariti alcuni aspetti della quaestio leonina. Sono innanzitutto riconosciute verosimiglianza e naturalezza alla rappresentazione del felino, indizio di una sua conoscenza almeno parzialmente autoptica e non soltanto mediata, ed è poi ridimensionato l’impatto degli stilemi vicino-orientali sull’arte greca, documentando come gli innegabili rapporti tra le due civiltà abbiano avuto un flusso non esclusivamente monodirezionale in senso est-ovest, bensì biunivoco.
Mentre da tempo gli studiosi hanno riconosciuto l’importanza del ruolo della melica corale e della performance rapsodica nella Kulturpolitik dei tiranni arcaici di Corinto, Atene e Sicione, minore attenzione è stata rivolta alla protezione offerta dai tiranni alla kitharôidia. Questo lavoro prende in considerazione le testimonianze su questo genere poetico nelle competizioni indette a Sicione sotto la tirannide di Clistene. Si sostiene che la descrizione di Orfeo e di altri musici in abiti citarodici sul Monopteros sicionio a Delfi pubblicizzi l’interesse politico di Clistene per la kitharôidia, in particolare la sua promozione delle Argonautiche citarodiche per sostituire la rhapsôidia “filoargiva” che egli aveva bandito da Sicione.
L’articolo esplora il motivo del nothos (figlio illegittimo) nelle tragedie di Euripide, nelle commedie di Menandro nell’Amphitryo di Plauto. Si sostiene che questo motivo si trova al confine tra due generi, tragedia e commedia. Inoltre, al di là delle convenzioni letterarie, come ad es. l’esposizione e il salvataggio miracoloso, il trattamento letterario del nothos riflette alcune effettive realtà sociali.
La FAKH («zuppa di lenticchie») era un piatto molto comune nella Grecia antica, spesso apprezzato anche per la sua tradizionale semplicità; il nome, perciò, fu usato anche in funzione proverbiale (to epiè t+% fak+% muéron) o come soprannome, per esempio nel caso del poeta Egemone di Taso. Il termine fakh% vanta numerose attestazioni anche in ambito comico, che sembrano rivelare una funzione puramente referenziale; è probabile, però, che l’espressione fakh%n r|ofei%n sia stata impiegata sia da Aristofane sia da Eupoli con evidenti finalità di citazione, forse in virtù della portata allusiva del nesso che avrebbe potuto rinviare proprio alle performances di Egemone.
Nella descrizione del Bello nel Simposio di Platone sono evidenti molti imprestiti dalla descrizione dell’Essere presente nel poema Sulla Natura di Parmenide, già da tempo messi in luce dalla letteratura secondaria. Ciò che ha attirato meno (o per nulla) l’attenzione sono le riprese narrative da Parmenide che collocano Socrate in una posizione liminare e marginale: posizioni che, nella letteratura a carattere quasi-mistico, costituiscono loci di rivelazione. Simili passi presenti nel Fedro suggeriscono che nei passi del Simposio qui presi in esame Platone abbia in mente la narrazione dell’anamnesis filosofica.
Isocrate ha preferito la cultura e la pratica della retorica non per una personale incapacità di elaborazione logica, ma perché essa era uno strumento più identitario, proprio in quanto antidialettico. La retorica infatti non fonda un umanesimo universale globale sempre aperto (come poteva fare la filosofia), ma, partendo dall'idea che l'uomo greco è già di per sé un universale, è ritenuta più adatta ad esprimere il dato statico, originario e perenne. Il nostro tempo, che, nonostante la globalizzazione (o forse grazie ad essa), riscopre l’identitario, riconosce come a sé familiari le movenze di Isocrate ed è portato a ripetere lo stupefacente errore antico di affidare a chi è riconoscitivo e identitario il ruolo di privilegiato educatore epocale.
Gli andriantopoiika di Posidippo alludono ad una serie di statue che rappresentano soggetti simili: il Doriforo di Policleto, l’Idomeneo di Cresila e l’Alessandro aichmephoros di Lisippo– tre portatori di lancia. Il poeta inoltre suggerisce un parallelo tra l’Alessandro aichmephoros di Lisippo e il Colosso di Rodi di Carete, due statue probabilmente collegate da una forte filiazione iconografica. Paragonando queste opere d’arte, Posidippo forse ha tentato di illustrare le proprie idee sullo stile e di mostrare che era possibile ammirare contemporanemente sia il megethos sia l’akribeia, sia la leptotes sia la semnotes e combinare queste qualità in un’unica opera. Questa idea è sottesa a una serie di immagini metapoetiche: le pietre e i fiumi dei lithika, le statue bronzee degli andriantopoiika e le vesti del Tydeus di Mirone illustrano una riuscita combinazione di entrambi i criteri. Quest’uso polemico di immagini metapoetiche va inteso come una parte della polemica letteraria tra Posidippo e Callimaco.
La corrispondenza tra il sacrificio di Polissena e quello di Ifigenia, già riscontrabile negli autori pre-ellenistici, è particolarmente evidente nell’Alessandra di Licofrone. I versi relativi al sacrificio della figlia di Priamo (323-329), infatti, sono in stretto rapporto con la sezione incentrata su Ifigenia (vv. 183-199). Le due unità narrative sono indubbiamente accostate. Lo dimostrano soprattutto le numerose riprese lessicali e concettuali, i richiami evocativi, e i comuni riferimenti alla Beozia, (che altrimenti sarebbero di difficile spiegazione). La stretta analogia fra i due episodi ha anche dato luogo ad alcuni dubbi esegetici, come testimoniano gli scoli licofronei.
Da alcuni passi straboniani (XII 8, 5; XIV 4, 10) e da accenni nei libri XIII-XIV è possibile ricostruire la trattazione sulla Licia di Apollodoro di Atene, attinta da Strabone al suo Commento al catalogo delle navi. Il grammatico, che si appoggia al metodo aristarcheo (confrontato però con la storiografica e letteratura successiva), salvaguarda l’intuitiva continuità tra la Licia omerica e quella storica davanti a possibili confusioni con entità omonime (Licia troadica) o vicine (Caria; Solimi).
Polinice è protagonista anomalo della gara dei carri di Stazio, Tebaide 6, perché destinato a una sconfitta che ne prefigura la morte. Dietro di lui sono evidenti i paradigmi mitici di Fetonte e Ippolito che non solo inducono il lettore a confrontarli con Polinice, ma anche mostrano il colloquio intertestuale di Stazio con i suoi modelli, nella fattispecie Ovidio, Virgilio e Seneca. Lo stile concentrato e prezioso diventa quindi veicolo di un contenuto altrettanto stratificato e intenso.